Apprezzamento
Commemorazione del 50° anniversario della morte di Don Carlo Manché
Omelia di Don Alfred Manché pronunciata alla Chiesa Parrochiale di Gżira il 17 di novembre 2000
Stasera mi trovo alquanto imbarazzato dovendo parlare di un membro dellia mia familglia. Mi sento, come si dice in latino: “Cicero pro domo sua” (Cicerona che difende se stesso), o come si dice in Maltese “Tiftaħar b’rixek” (vantarsi del proprio piume). Per me però, non c’è né l’uno né l’altro di questi detti. Vi parlo di quello che so, della mia piccola esperienza di Don Carlo: (quando morì avevo soltanto diciasette anni di cui quattro erano già vissuti in seminario, perciò lo frequentavo solo durante il periodo delle vacanze di Natale, Pasqua ed estive) e da essa interpreto la sua vita di sacerdote buono, di fede, zelante nell’apostolato e di grande generosità.
Prima di tutto ascoltate questi pochi versetti dal Libro dei Salmi: Salmo 106, v.3: “Beati coloro che vivono nella giustizia e osservano sempre la legge del Signore”; Salmo 112, v.1: “Beato colui che teme il Signore e prova grande gioia nei suoi comandamenti”; Salmo 119, v.1: “Beato l’uomo di integra condotta, che cammina nella Iegge del Signore”; Salmo 119, v.2: “Beato colui che è fedele ai suoi insegnamenti e lo cerca con tutto il cuore”.
Nella prima lettura dal Libro della Sapienza (13:1-3) abbiamo ascoltato: “Sono davvero sciocchi di natura tutti coloro che hanno vissuto senza aver conosciuto il Signore, e dai beni visibili (che hanno visto con i loro occhi) non hanno conosciuto chi li ha creati … Se, ammagliati dalla loro bellezza, li hanno presi per degli dei, che pensino quanto più grande è il loro Dio, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza.”
Il suo distacco dalle cose belle e buone
Il primo pensiero su Don Carlo, ispirato da questi brani, è il suo distacco dalle cose belle e buone. A chi gli diceva: “Signor Parroco com’è bello questo!” immediatamente rispondeva: “Ti piace? Prendilo!” Collegato a questo distacco dalle cose, era la sua avversione agli onori.
Una volta, mi pare in occasione delle celebrazioni della fondazione della Banda “Mount Carmel” (la Società Musicale locale), alcuni membri, euforici per l’avvenimento da tanto desiderato, perché fosse davvero un luogo di formazione, lo avvicarono e intesero di innalzarlo sulle spalle. Tanta fu la sua resistenza che ebbe il dislocamento di tre costole. Ma sulle spalle non ci andò. Mi ricordo che il giorno dopo, il professor Craig, specialista delle osse, che abitava a Ta’ Xbiex (una zona della parrocchia), venne in canonica, e con una tecnica direi, quasi rudimentale: puntando il ginocchio sulla spina dorsale e tirando indietro ambedue le spalle, con un paio di schianti, tutto ritornò al suo posto.
Il suo entusiasmo per l’apostolato
Il suo entusiasmo per l’apostolato si evidenziava dalle sue iniziative e attività pastorali. Inizio dicendo che si teneva aggioranto nell’insegnamento della Chiesa. Comprava libri di teologi di punta del suo tempo: cito per uno, Henri de Lubac. Il catechismo in chiesa (dovere primario del parroco) ogni domenica alle ore 15 per i bambini e alle ore 17 per gli adulti. Spesso la mamma mi portava con sé, per non lasciarmi solo a casa, e io mi addormentavo appoggiando la testa sulla sua spalla.
Al catechismo dei ragazzi era legata una disciplina ferrea. Testimone dell’attendenza domenicale erano i bollini tondi, marroni, con la scritta “Gzira”, che dovevano poi essere consegnati per avere in cambio il “bollettino”, attestato della presenza, per poter accedere al precetto pasquale. Quanto si tenevano cari quei bollini! Perciò, ogni domenica la chiesa era gremita di bambini. Si partiva in gruppi, quasi in processione, chi dalla casa delle Suore Agostiniane, e chi dalla sede del MUSEUM, Associazione fondata da Don Giorgio Preca (oggi Santo), per l’insegnamento della catechesi ai ragazzi in preparazione alla Prima Comunione e alla Cresima. La lezione di catechismo si concludeva con il racconto di un episodio biblico ed il sorteggio di alcuni premi. A questo scopo, Don Carlo pensava di tradurre in Maltese alcune parti della Bibbia.
Gli incontri dell’Azione Cattolica
Gli incontri del ramo Uomini di Azione Cattolica si svolgevano regolarmente ogni settimana. Il piano terra della canonica era diventato la sede dell’Azione Cattolica – uomini e ragazzi. Lì si costruivano i festoni e le mantovane (“pavaljuni” in maltese), su telai di legno, con foglie di cartone dipinti di verde, per la festa patronale. Il giardino della canonica fu trasformato in una sala teatro all’aperto. Mentre le adunanze delle donne dell’Azione Cattolica se tenevano in chiesa dal vice-parroco Don Emanuele Zammit; il ramo femminile, giovani e bambine, si riuniva nella Scuola delle Suore Agostiniane a Via Ponsonby.
Il suo impegno nel confessionale
Oltre all’orario consueto del sabato pomeriggio – quando regolarmente un numero di sacerdoti e frati, di fuori parrocchia, venivano ad aiutare nelle confessioni – (Padre Guido, domenicano, veniva già da quando ero bambino e ha continuato a venire in parrocchia fino alla sua morte, avvenuta poco tempo fa) – Don Carlo aveva il suo giorno personale per ascoltare le confessioni delle sue penitenti regolari: il mercoledì dalle ore 15 in poi. Regolarmente, uno della nostra famiglia gli faceva da sveglia, portandogli una tazzina di caffè nero alle ore 15. Il mercoledì la sveglia era anticipata di un quarto d’ora proprio per via delle confessioni. Dalla sua direzione spirituale sono fiorite diverse vocazioni – tra queste anche tre mie sorelle.
Il suo interesse per la conversione dei protestanti
Durante il periodo della guerra (1939-1943) a Malta erano stazionati molti inglesi: della marina, della aviazione e militari. Dai loro contatti con i maltesi e, in modo particolare, in previsioni di matrimoni, diversi incominciarono ad interessarsi della religione cattolica. Don Carlo ha insegnato, preparato e battezzato diversi protestanti residenti in parrocchia e altri indirizzati a lui da altri parroci. Il battesimo dei convertiti, in quei giorni, si celebrava non in chiese ma nel coro, dietro l’altare maggiore (quasi in modo privato, non pubblico).
La comunione dei malati
Un’altra pagina dell’apostolato di Don Carlo era la comunione dei malati. Spesso, dopo la celebrazione della messa delle ore 8, portava la comunione ai malati. Quando c’era qualche caso grave, faceva visita anche tutti i giorni. Gli piaceva portare qualcuno con sé. Ogni tanto, durante il tempo delle mie vacanze (Natale, Pasqua e d’estate) gli facevo compagnia. In questo servizio ai malati, posso dire che anticipò il Concilio Vaticano II. In quei tempi, il digiuno eucaristico incominciava a mezza notte. Una mattina siamo andati a portare la comunione ad una signora di nome Marì, che abitava in Garden Street. Questa donna era stata, per un bel tempo, la domestica della canonica dove più preti abitavano insieme al parroco. Marì era intanto diventate diabetica. Aveva imparato a fare da sé le iniezioni di insulina. Quella mattina, Don Carlo le domandò: “Marì, hai preso qualcosa stamani?” “No, Signor Parroco,” rispose, “perché volevo fare la comunione.” “Riempi quel bicchiere di latte e bevilo subito,” disse. Dopo le amministrò la comunione. Oggi, dopo il Concilio, il tempo del digiuno eucaristico è ridotto ad un’ora e i malati ne sono addirittura dispensati.
La disciplina e l’ordine in chiesa
Panche invece di sedie. Poi un primo tentativo di un libretto di poche pagine con preghiere in maltese da recitare privatamente durante la santa messa. I famosi “pamphlet” (libretti) della “Catholic Truth Society” in inglese che trattavano svariati argomenti della dottrina cattolica.
L’abbigliamento in chiesa
Era già malato e ritirato nella sua camera. All’inizio di dicembre doveva sposarsi mio fratello Lorenzo. Venne a sapere da un altro mio fratello maggiore che i vestiti delle damigelle erano alquanto scollati. Ero andato da lui per vedere se aveva bisogno di qualche servizio e lo trovai alquanto agitato. “Vai,” disse, “chiama la mamma e dille di venire subito qui.” E non si calmò prima di avere la parola di mio fratello, il futuro sposo, che li assicurò: “Se è necessario il matrimonio si farà senza damigelle.” Tutto tornò tranquillo.
La sua lotta coraggiosa contro la prostituzione
Per ultimo parlerò della sua lotta coraggiosa contro la prostituzione. La Gzira, in modo particolare durante il tempo della guerra, era rinomata per le “barmaids”, le prostitute. La parrocchia aveva preso una brutta fama. Il lungomare era pieni di Bar, uno accanto all’altro. I marinai stanziati a “Fort Manoel” – un isolotto collegato alla terra ferma da un ponte, proprio di rimpetto alla Valletta – ogni sera, nel loro tempo libero, passeggiavano lungo il mare, visitando un bar dopo l’altro, fino a diventare ubriachi fradici, incapaci di reggersi in piedi, borbottando e strimpellando, finché non passava una pattuglia che li caricava come sacchi di patate e li portava via in caserma.
Per questo i proprietari del bar reclutavano le donne della parrocchia per attirare più clienti. Era da molti nota la ronda del parroco Don Carlo, accompagnato dal Sergente locale della polizia, il Signor Grima, uomo ben tarchiato e di disciplina singolare. (Tutti noi ragazzi ne avevamo paura reverenziale di lui. Giocavamo a pallone nella strada, ma appena uno di noi si accorgeva che egli partiva dalla stazione di polizia – la stazione si vedeva molto bene perché dove si trova l’edificio del “Marshall Court” era ancora un campo – tutti scappavamo, ciascuno a casa sua.) Diverse di quelle donne erano aiutate finanziariamente da Don Carlo. C’erano dicerie che, per alcune di loro pagava l’affitto di casa per incoraggiarle a cambiare vita.
Il fondamento che sosteneva l’attività apostolica
Qual’era il fondamento: che cosa sosteneva l’attività apostolica di Don Carlo? Ogni giorno, chiuso l’ufficio parrocchiale a mezzogiorno, per mezz’ora faceva la sua meditazione nella sua camera. Il suo moto era: “Quod faciendum est, citius faciendum est” (quello che devi fare, fallo al più presto). L’ho trovato scritto, di suo pugno, su un foglietto in un libro, in latino, che usava per le sue meditazioni. Spesso, per non dire, ogni settimana, frequentava Don Paolo Galea a San Giuliano. Era opinione comune che Don Paolo fosse il suo confessore e perciò le frequentava regolarmente, e per confessarsi e per conversare insieme da amici (Don Paolo divenne il parroco di Gzira dopo la morte di Don Carlo).
Dalle volte andavamo a passeggio con lui, quando era già buio e lungo la strada recitavamo il rosario. Quando uno dei miei fratelli maggiori, Francesco, contrasse il tifo nel periodo della guerra, per proteggere noi più giovani dal pericolo di contagio, per un certo periodo, dopo cena, avendo lavato il viso e le mani col ‘crisol’ – un disinfettante di odore poco gradevole – andavamo a dormire in canonica colui. Ma prima, ancora insieme a lui, si andava in chiese, e con luce soffusa e in silenzio recitavamo le preghiere della sera.
Egli non trascurava il suo dovere di sacerdote. I sacerdoti erano (e sono ancora oggi) tenuti a fare gli esercizi spirituali ogni anno. Una volta andò a fare il ritiro presso il Collegio di San Luigi, dei Padri Gesuiti a Birkirkara. Al suo ritorno la mamma se accorse che aveva lasciato dietro il tovagliolo: sono dovuto andare io a ritirarlo.
La privazione e la mortificazione
La privazione e la mortificazione facevano parte della sua vita. Ricordo di non averlo mai visto mangiare una frutta a tavola né a pranzo né a cena. Dolci, gelato e tutto quello che soddisfa la gola, per lui sembrava tabù, come non esistessero. Sì, c’erano però il caffè e la pipa. Quando cominciò ad avvertire il dolore della ‘angina pectoris’, qualcuno gli aveva suggerito di mangiare i peperoncini, perché c’era allora l’opinione che essi dilatavano le vene. Perciò, durante il pranzo affettava uno o due e li mangiava insieme alle pietanze. Potete immaginare il bruciore che sentiva in bocca, Io rimanevo stupito a vederlo mangiarli, perché, una volta per castigo, mi mise i semi di uno nel brodo e ho dovuto mangiarlo: che bruciore, che calore in bocca, sembrava mangiassi il fuoco.
Don Carlo amava molto la musica e il canto, in modo particolare il canto gregoriano. Sapeva suonare l’oboe, il violino, l’harmonium, e quando s’ammalò, non essendo più in grado di soffiare forte, incominciò a studiare il violoncello. Uno dei suoi momenti di relax, veramente pochissimi, era la prova d’orchestra, il lunedì sera, nella casa di un altro nostro fratello, Alberto, a Sliema. Qualche volta andavamo con lui, mia sorella Giuseppina ed io. Aveva una macchina Fiat Balilla con il suo claxon particolare. Era riconosciuta da tutti i parrocchiani. Aveva un delizio e un passatempo: accomodare orologi, particolarmente le sveglie. “Signor parroco, non sono venuta alla messa perché la sveglia non suona più.” “Davvero? Portamela. Te l’accomodo io.” Molto di rado gli veniva la voglia di andare al mare. Una volta, d’estate, siamo andati lui, mio fratello Giorgio ed io alla spiaggia della Mellieha, al buio, alle ore 21. Dopo una decina di minuti uscii dall’acqua, i miei denti battevano abbastanza forte dal freddo. Quando gli altri ebbero avuto abbastanza, siamo tornati a casa.
Una volta siamo andati a pescare con la lenza soltanto al Blue Grotto (Grotta Azzurra, una mèta turistica, a Wied iz-Zurrieq). Un certo Sig. Grixti, un parrocchiano, nativo di Zurrieq, che abitava in Rue D’Argens, dove aveva una lavanderia, noleggiò per mio fratello una barca da un suo amico di Zurrieq. Ai remi c’era lo stesso proprietario della barca. Da Wied iz-Zurrieq siamo andati al Blue Grotto, un ambiente, un mare stupendo, bellissimo, incantevole. Lì ci siamo fermati a pescare. Ma dopo un po’ le ondulazioni della barca incominciarono a darmi fastidio, seguì la nausea, al punto di dover scendere a terra nella grotta. Terminata la pesca sono tornati a riprendermi.
Ligio al proprio dovere
Soprattutto Don Carlo era ligio al proprio dovere. Era legato alla parrocchia come uno sposo alla sposa, anima e corpo. Quando scoppiò la guerra nel 1939, la mia famiglia, insieme ad altre, abbiamo lasciato la casa e ci siamo incamminati verso “Tal-Minsija” (Della Dimenticata). Un posto disabitato. Ci siamo messi nei campi, all’addiaccio, equipaggiati di una coperta ciascuno. Il giorno dopo un contadino del luogo ci offrì una casetta dove teneva gli approvvigionamenti per le sue bestie.
Dopo poco tempo, Don Carlo ci trovò una casa a Mgarr, tramite un suo amico, Mons. Edgar Salomone. (Mgarr, un villaggio sperduto, completamente staccato da tutto e da tutti). Egli invece rimase in parrocchia, a Gzira, fedele al proprio gregge affidatogli dal Vescovo Mon. Mauro Caruana, anche se aveva molta paura degli attacchi aerei.
La sua croce: il danaro, i soldi
Sembrava che ne avesse paura. La sua cassaforte erano i barattoli vuoti del tabacco (amava molto Ia pipa). La mamma, vedova con 8 figli a carico, ogni tanto mi mandava da lui a dire: “La mamma chiede se bai qualche soldo per Ia spesa”. “Vediamo se c’è qualche cosa” diceva, mentre con le dita frugava un barattolo dopo all’ altro. Quando trovava qualche spicciolo diceva: “Prendi, dalle questi”.
Delle volte mi chiamava per dargli una mano nel controllo dei registri contabili della parrocchia per portarli in Curia Vescovile. Delle volte i conti non tornavano. “Fred, abbiamo saltato qualche cosa. Incominciamo da capo” finché tutto tomava a puntino. Ma i conti personali non li controllava, perché di fatti, non esistevano. Si può dire: viveva alla giornata.
E così siamo arrivati alla conclusione
Quello che abbiamo detto non ha nessuna ombra di vanto. Ho provato a darvi qualche scorcio della figura di Don Carlo da quello che ho sperimentato personalmente perché possiate avere qualche idea della sua personalità, nella celebrazione di questo 50° dalla sua morte, avvenuta il 18 Dicembre 1950, mentre qualcun altro ha pensato a ricordarlo e a far veder Ia sua figura con un busto, sta sera in gesso, poi sarà riprodotto in bronzo. Ringrazio di cuore, anche a nome della mia famiglia qui presente stasera ed altri sparsi per il mondo, i benefattori di questa opera così bella.
Tradotta dal maltese da Don Alfred Manché